Quando parliamo di stampa flessografica, o più brevemente di flessografia, ci riferiamo ad una particolare procedura di stampa, molto utilizzata, caratterizzata essenzialmente dall’uso di una piastra flessibile che porta, in rilievo, i caratteri o simboli da stampare. Nonostante sia una tecnica di vecchissima data, è ancor oggi utilizzata in un numero significativo di casi: questo è dovuto alla sua versatilità, che rende possibile stampare su una grande gamma di supporti, dalla carta al cellophane al metallo, inclusi I supporti rigidamente non-porosi che sono necessari per gli incarti e gli involucri destinati a proteggere gli alimenti confezionati dalla contaminazione. Ma quali sono gli effettivi vantaggi che questo metodo di stampa può offrire, e qual è la sua storia, dalle origini ad oggi?
Le origini della stampa flessografica vanno ricercate in Inghilterra sul finire del diciannovesimo secolo, e per essere precisi nell’anno 1890, quando una ditta di nome Bibby, Baron and Sons produsse la prima macchina da stampa di questo tipo. Usava ancora inchiostri a base d’acqua, che tendevano a sbavare molto – il che le valse il soprannome di “Bibby’s Folly”, ossia “La Follia di Bibby” . Le cose non rimasero ferme a lungo, tuttavia: negli anni Venti del 1900, il grosso della produzione delle macchine flessografiche si è oramai interamente spostato in Germania, dove il metodo ha nome “Gummidruck”, ossia “stampa a gomma”. Gli inchiostri ad acqua sono stati abbandonati in favore di quelli, più stabili, a base di anilina, migliorando la qualità di stampa. Ma c’è un problema: l’anilina è tossica, e la Gummidruck si usa specialmente per stampare confezioni di alimenti. Negli anni ’40, la DDA Statunitense dichiara il metodo incompatibile con l’ambito alimentare, e le vendite colano a picco.
Come sovente capita, la cattiva impressione rimase viva anche quando, nel 1949, nuovi inchiostri, sicuri e atossici, vennero di nuovo permessi per la stampa su involucri alimentari, rendendo ancora possibile il procedimento che oggi chiamiamo flessografico: le vendite non accennavano a risalire, e fu necessario pensare un nuovo nome, che non richiamasse cattivi ricordi nella mente dei clienti. Alla fine di un sondaggio nel 1951, condotto dall’allora presidente della Mosstype Corporation, Franklin Moss, sul suo bollettino “the Mosstyper”, il metodo ricevette, fra le tre denominazioni finaliste di “permatone”, “rotopake” e “flexograph”, la terza, che vinse con vasto margine di voti.
E se ancor oggi parliamo di stampa flessografica e la usiamo tanto diffusamente è perchè, sebbene per molto tempo (per la precisione, almeno fino agli anni ’90) non abbia offerto livelli di esattezza confrontabili con quelli offerti dalla stampa offset, dà in compenso la possibilità di lavorare su moltissimi supporti diversi, tutti tipici del packaging, come plastica, pellicole metalliche, cartoni e acetato, e di usare inchiostri anche a base d’acqua. In generale, per di più, tutti gli inchiostri flessografici sono poco viscosi, e quindi tendono ad essiccare in fretta, accorciando I tempi di lavorazione e di conseguenza I costi. Per tutti questi motivi, ancora oggi, la flessografia ha ancora un ruolo importante e una posizione precisa nel mondo della stampa, e non accenna a volerli abbandonare.